Parola d’autore
5.000 battute. Tema libero. Gli autori Edelweiss si presentano con la propria voce.
La ballerina d’argento
di Giorgia Penzo
Oreste amava guardarla dalla finestra mentre lei si spazzolava i capelli.
Le ricordava un’attrice del cinema americano degli anni Cinquanta di cui una volta sapeva il nome. Le sue giornate ruotavano intorno all’attesa del momento in cui lei appoggiava la spazzola sul mobile da toeletta e raggiungeva il letto, con l’incedere leggiadro di chi aveva dedicato la vita al balletto.
Oreste rimaneva immobile qualche secondo dopo che lei aveva spento la luce: la immaginava sdraiata su un fianco in un letto troppo grande per una persona sola, i lunghi capelli argentei sparsi sul cuscino. Poi sorrideva al buio dal palazzo di fronte, si riassestava il nodo alla cravatta e usciva.
Faceva il portiere notturno in un’azienda che aveva visto nascere da un’officina. Da qualche giorno non riusciva a smettere di rimuginare sulla marea di tempo libero che avrebbe avuto da lì a poche ore. La pensione gli metteva paura; sarebbe diventato ufficialmente vecchio, e lui vecchio ancora non si sentiva.
Quella sera, chiuso nel suo gabbiotto, si lasciò cullare dal cicaleccio proveniente dalla pineta. Pensò alla sua dirimpettaia, la ballerina d’argento. Non l’aveva mai incontrata, né si era mai arrischiato a disturbarla. Si incagliò di nuovo su un pensiero ricorrente, su quanto sarebbe stato bello parlare con lei. Poi, come tutte le volte, lo scacciò: era un ometto timido, all’antica; lei una signora di gran classe. Non avrebbe avuto nulla da spartire con uno come lui.
Eppure si convinse che aveva aspettato troppo a lungo. Il pensionamento gli avrebbe regalato il tempo, lui avrebbe dovuto trovare il coraggio che gli era mancato in tutti quegli anni. Quando rincasò di primo mattino gran parte della città dormiva ancora. Come di consueto si preparò una tazza di tè e raggiunse il divano del salotto. Dal mobile della televisione scelse “Il favorito della grande regina”, con Bette Davis.
«Orfeo ed Euridice» rifletté ad alta voce. «Sì, potrebbe andare».
Due biglietti per il balletto e un mazzo di gerbere erano poggiati sul pianale della cucina. Domani sarebbe stato il grande giorno.
Dopo cena Oreste si avvicinò alla finestra per augurare la buonanotte alla ballerina d’argento ma lei non era seduta al mobile da toeletta. Aspettò fino a mezzanotte. Niente. Il lampadario nella stanza da letto continuava a rimanere spento. Attese fino alle due, invano. Quella sera lei non accese la luce, né si spazzolò i capelli. Oreste non chiuse occhio per tutta la notte.
Il suono del campanello lo sorprese appisolato sul divano. Il sole era alto. Strisciò fino alla porta, guardò dallo spioncino. C’era un ragazzone serio dall’altra parte.
«Chi è?» sbiascicò da dietro la catena.
«Mi scusi. Mia zia voleva che avesse queste». Il ragazzo fece passare una scatola e una busta nello spiraglio. «Lei è l’inquilino del quarto piano, giusto? Quello dei film in bianco e nero».
Oreste sentì qualcosa spezzarglisi dentro. Aprì la lettera e si mise a leggere. «Sua zia…».
L’altro annuì. «Ieri. Il cuore le ha ceduto alla scuola di danza». Affondò negli occhi sconfinati di Oreste. Stavano prendendo fiato dall’ultima riga. «Mi dispiace tanto. Buona giornata, signore».
Avrei voluto avere la faccia tosta di suonare alla tua porta.
Avrei portato dei film, li avremmo visti sul divano del tuo salotto. L’ho sempre reputato troppo grande per una persona sola. Per anni, prima di colazione, mi sono nascosta dietro la tenda del soggiorno. Ho guardato con te i titoli di testa di ogni commedia, di ogni dramma, di ogni storia d’amore. Durante ogni lezione di danza che ho impartito mi sono chiesta come sarebbe stato arrivare insieme ai titoli di coda.
Ho avuto coraggio per tutta la vita, tranne che con te. Quando si invecchia si torna ragazzini, e come una ragazzina avevo la certezza che non sarei sopravvissuta se tu non avessi contraccambiato i miei sentimenti. Mi sono vista sfiorita e inadeguata, troppo in là con gli anni per avere il diritto di farmi avanti. Mi sarebbe piaciuto vincere tutte le mie insicurezze e conoscerti, caro amico del quarto piano. Se riceverai questa lettera vorrà dire che non ci sono riuscita. Il mio unico rimpianto è aver creduto fosse troppo tardi. Non dovrebbe mai essere troppo tardi, per nessuno, per nessuna cosa buona al mondo.
Sappi che il tuo ricordo è con me e lo sarà fino all’ultimo atto.
La platea del teatro si levò in un fragoroso applauso mentre calava il sipario. Oreste lasciò una gerbera sulla poltrona vuota di fianco alla sua, infilò il soprabito e ritornò a casa. Le gambe lo condussero fino alla finestra della cucina e lui non riuscì a opporsi.
«Che farò senza Euridice?» sospirò fino ad appannare il vetro.
L’icona della Madonna col Bambinello che teneva sopra il letto lo aveva vegliato per più di mezzo secolo. Oreste si allungò sul materasso, la staccò dal chiodino, baciò la cornice e la ripose nell’armadio. Al suo posto appese le scarpette di raso bianco dalla punta consumata che aveva ricevuto insieme alla lettera. Le guardò a lungo prima di spegnere la luce.
«Che terribile equivoco, amore mio» sorrise nel buio.
Il cuore di Oreste era quieto. Lei era lì con lui.
© Giorgia Penzo
Cosa mi manchi a fare
di Nicolas Alejandro Cunial
Firenze oggi bolle nella pioggia. Questo bus sarà già in ritardo di mezz’ora, e io non ho più voglia di tornare a casa.
Nella testa la tua voce mi interroga di continuo, ma non ne avrebbe il diritto. Vuoi che ti parli del nostro sporco amore? Perché, non eri tu nella tua vita a guardare altrove mentre da dietro ti suggerivo le risposte? Non hai voluto ascoltarle, basta, cos’altro vuoi sapere? Sei stata tu a interrompere l’esame, prima ancora di sapere se vi fosse o meno un’altra domanda a cui rispondere.
Mi muovo, che l’autobus raccolga qualcun altro. Cammino con gli auricolari in posizione, alzo il volume così tanto che i passanti riescono a cogliere grammi di suoni, lembi di parole. Lo leggo nei loro occhi, pensano che un giorno diventerò sordo. Almeno non avrò più orecchio per nessun tuo ricordo.
La pioggia scende fredda su di te.
E io vorrei esserti l’ombrello e pure il temporale. E sarei tanto bravo da soffiare un vento così forte da farti volare via. Mi trasformerei in lampione perché tu possa esercitare la tua presa, ma sarei di un materiale che la renderebbe instabile. Sappi che godo e piango nel pensarti come un fallimento.
Pesaro è una donna intelligente.
Penso che non siamo mai stati a Pesaro né in tanti altri luoghi. Come abbiamo fatto a mangiarci tutto questo tempo senza vomitarlo? A ripensarci adesso, sembrava avessimo un affitto l’uno nel corpo dell’altro, e lì vivessimo senza uscire, in letargo, aspettando che l’inverno si facesse contrario.
Forse è vero ti eri fatta trasparente.
Da complessa a incomprensibile. Ogni tuo gesto si nutriva di un senso logico soltanto per te che lo avevi generato. Confondevi il rispetto con la coerenza, l’affetto con la veemenza sotto le lenzuola. Un giorno eri felicità d’assalto, quello prima eri iena da combattimento. Il successivo non ho fatto in tempo a vederlo.
E non mi importa se non mi ami più, e non importa se non mi vuoi bene, dovrò soltanto reimparare a camminare.
Davvero, non mi importa più se non mi ami. I tuoi sorrisi sono velenosi, la tua gioia è pura tecnica priva di spontaneità, è sistemica.
Non mi importa se non mi vuoi bene, io ti voglio male ma vorrei ancora amare le tue follie. Mi maledico, preferirei mi fossi indifferente, vorrei poterti guardare e pensare che non sei bella per niente.
Vivo un’alterazione, sono due corpi per una sola anima e non riesco a scegliere il fisico più comodo. Uno vorrebbe perdonare, non tanto per tuo merito ma per la mia pace personale – così ho letto che un uomo saggio dovrebbe fare –, l’altro è spinto alla vendetta, fredda e di punta così fina che ti si sarà conficcata mesi prima di sentirne la presenza. Ma non mi decido, e mentre cammino so già quale limbo abito: un purgatorio di intenzioni senza un luogo dove espiare i peccati. Che poi avrei tanto voluto commetterli, almeno mi sarei incolpato di qualcosa. Invece non mi hai lasciato neanche questa scusa.
Forse il tempo sarà in grado di darmi un motivo più valido per l’odio ora in prova. Tu augurati di non riceverlo per posta, sarebbe certamente più violento che non consegnartelo di persona.
Basta, sono stanco di parlarti nei miei pensieri, sono stanco di parlare dei nostri ieri e degli amori che abbiamo vissuto nei giorni, quotidiani.
La voce degli auricolari canta che dovrò soltanto reimparare a camminare, ma la verità è che me ne starò seduto in disequilibrio, che se ricominciassi a camminare adesso, un posto o l’altro dove andare non sarebbe lo stesso. Tornerei da te e tornerei presto. E non voglio. Eppure il passo è più svelto del pensiero, così mi ritrovo freddo di fronte al campanello del tuo mondo, con la tua bici posteggiata dietro. Sarei così stupido da bucarti le gomme e così buono da riparartele prima che i fori si facciano vulcani, effetto già vissuto nel mio stomaco – ma, t’assicuro, è comunque uno spettacolo per cui valga comprare il biglietto, l’innamoramento.
Il dito si appoggia sopra il tasto per chiamarti. Tu rispondi, e la tua voce dal citofono è così afona che mi ha fatto scendere la voglia. Non hai nulla per cui valga la pena. Sei stata in grado di farmi passeggiare sotto l’acqua tiepida di giugno solo per scoprire che il viaggio non è fatto di una meta ma solo di un percorso. Ora ho capito: sarebbe stato meglio aspettare l’autobus.
© Nicolas Alejandro Cunial
Raffermo e Lucia
di Daniele Borghi
Spett.le Agenzia Letteraria Edelweiss,
Invio questo manoscritto con l’intenzione di essere da voi rappresentato nella mia attività letteraria. Dall’inizio della prima stesura alla versione definitiva sono trascorsi oltre sette anni, questo a causa di una mia puntigliosa ricerca della perfezione linguistico-sintattica. Per raggiungere quest’ultima ho trascorso molto tempo frequentando gruppi di ragazzi del Tiburtino Terzo, Ponte Mammolo e Pietralata. Per dirla con una frase che, perdonatemi l’immodestia, sono certo passerà alla storia della letteratura: «Ho risciacquato i miei panni in Aniene». Il titolo dell’opera è Raffermo e Lucia.
Spero vi sia gradita la sinossi che troverete di seguito.
La narrazione ha inizio con l’arrivo di don Gerundio alla discarica di rifiuti solidi urbani dove lo attendono due loschi figuri. Il sacerdote, assorto nella lettura di Eva3000, non s’accorge dei due sin quando uno di loro non gli sfila il giornale dalle mani rimanendo ben presto catturato dai nudi delle VIP al mare.
Mentre er Pinzetta (soprannome nato dalla capacità di svitare i bulloni degli pneumatici a mani nude) analizza i particolari più interessanti delle foto, er Pannocchia (omosessuale che ha preso il nome dal cereale che usa per placare le sue turpi voglie) gli si para davanti e lo minaccia.
«Se fai entrare Lucia in comunità te faccio un giochetto che quando vai a caga’ sembri la macchinetta per fa’ i popcorn».
La Lucia in questione è la donna del boss del quartiere, don Rigo, ribattezzato così a causa della sua smodata passione per la cocaina.È una magnifica ragazza sudamericana che, dopo anni di legame con il malavitoso, ha deciso di troncare la relazione e la sua professione di spacciatrice tossica. La decisione è maturata quando ha incontrato un tunisino dal nome impronunciabile e ben presto soprannominato Raffermo a causa della sua attività di raccoglitore di pane ammuffito al soldo di un allevatore di polli senza scrupoli. L’allevatore, non i polli.
Raffermo le ha fatto conoscere il vero amore. Basta con le Jacuzzi e le chilometriche strisce di coca e via con le baracche in lamiera ondulata e le file alla mensa della Caritas. Colpita da questo nuovo stile di vita, Lucia ha deciso di disintossicarsi e don Gerundio sta per accoglierla nella sua comunità. Da qui l’ultimatum. Il prete, l’uomo più pavido del mondo, sa chi sono i due e le sole parole che riesce a pronunciare sono una resa incondizionata: «A disposizione».
Quando Lucia sa dell’accaduto si dispera e decide di fuggire per raggiungere la comunità di suor Mocciola, nota per l’alta percentuale di recupero, e lo fa senza poter avvertire Raffermo. Lui, non appena Lucia sparisce dalla circolazione, viene immediatamente catturato, imprigionato e torturato per farsi rivelare dove sia la donna. Il disgraziato viene fatto oggetto di brutali attenzioni da tutti gli amanti der Pannocchia, il quale alla fine di ogni “seduta” lo interroga ma, invariabilmente, senza risultato.
In comunità Lucia è accolta da suor Mocciola in persona che esordisce con parole inequivocabili: «Voglio essere chiara. Qui comando io! E quando dico comando intendo dire dispotismo, tirannia, potere assoluto et similia».
Lucia, inginocchiata sui ceci, sussurra: «Sì, madre».
«Primo errore, nessuno ti ha ordinato di rispondere» chiosa suor Mocciola, infierendo con una ginocchiata sul setto nasale.
L’ambiente della comunità e l’atmosfera che vi regna non sono per nulla piacevoli, ma Lucia si sottopone alla prova grazie al coraggio che le viene dal suo amore per Raffermo. Le ricerche di don Rigo, nel frattempo, si fanno sempre più febbrili. Interrogatori, pestaggi e invio di emissari in tutte le comunità di recupero alla fine danno il risultato sperato, dopo meno di un mese Lucia viene localizzata. Ma don Rigo ha un ostacolo difficile da superare: la comunità ha standard di sicurezza degni del miglior carcere speciale. Ogni ospite che se ne va per suor Mocciola è un danno economico e questa è una cosa che la religiosa può tollerare.
Dopo aver pensato a un’irruzione, al boss viene un’idea: fingere di voler pagare un riscatto per il rilascio di Lucia e poi, una volta dentro il perimetro della comunità, portarla via armi in pugno. La trattativa è lunga. La despota chiede quattro anni di retta anticipata e don Rigo deve fingere di trattare per non destare sospetti. Dopo alcuni giorni l’accordo è raggiunto, e le condizioni sono dettate dalla tiranna. Il boss sorride e, pensando a nascondere tre dei suoi nel bagagliaio della Mercedes, accetta. Localizzata Lucia, Raffermo viene liberato. Immaginandolo privo di vita dopo le infinite torture, i due bravacci parlano del loro piano mentre lo portano alla discarica per abbandonarlo e quindi si finge morto e tenta la sua ultima carta: nottetempo si nasconde nel bagagliaio della Mercedes sperando di trovare un modo per liberare Lucia. All’alba del mattino successivo la banda è già in autostrada. Con il boss viaggiano er Pinzetta, er Pannocchia e Lìmentra, prostituta adolescente ingaggiata per intenerire o indurire, a seconda dei casi, i cerberi di suor Mocciola. Nelle vicinanze della comunità, don Rigo si ferma per nascondere i suoi uomini nel bagagliaio, ma non riuscendo ad aprirlo è costretto a proseguire da solo. Quando finalmente si trova al cospetto della malvagia religiosa e lo scambio sta per essere fatto, Raffermo apre il bagagliaio dall’interno e fatte proprie le armi della banda, fa irruzione nella sala riunioni e uccide tutti i presenti tranne Lucia. Per i due, alla guida della Mercedes blindata, non è difficile fuggire facendo saltare il cancello colpendolo in piena velocità. Il futuro li attende.
Nella speranza che questo breve sunto e la lettura del manoscritto possano destare il vostro interesse e indurvi a rappresentarmi, invio i miei più cordiali saluti.
Alessandro Manzoni
© Daniele Borghi
Encefalite C
di Gero Mannella
“L’encefalite C africana è una grave infezione batterica trasmessa dalle zanzare cavalline”, lesse Pepi Sincleux sull’ultimo numero di “Digestive’s Digest”, “ogni anno colpisce circa 10000 individui nel mondo, con un tasso di mortalità dell’80%. Unica forma di prevenzione è l’uso del preservativo nei rapporti sessuali con dette zanzare”.
Pepi Sincleux fu visibilmente scosso dalla notizia.
Di rapporti sessuali non protetti con zanzare ne aveva avuti molti, vattelapesca se fossero cavalline o meno.
Come fare ad accorgersi se aveva contratto quel morbo?
E, facendo le corna l’avesse preso, cosa avrebbe fatto del resto della sua vita?
Quanto tempo quel tarlo sarebbe stato lì ad incubare sordido, a scavargli dentro fino a svuotarlo, a fare del suo corpo una scarna crisalide?
Avrebbe forse sofferto al punto da agognare il trapasso?
Un’oscura angoscia, un’irrazionale premonizione cominciò a montare, a riempirgli l’animo e i polmoni come per compensare quell’impressione di svuotamento in fieri.
Inquieto Pepi Sincleux vagolò per la camera da letto poggiandosi dove capitava: alla parete, allo specchio dell’armadio, alla porta del bagno.
E da quelle diverse prospettive prese a rimirare Eleonora sommersa dalle coltri.
Il volto imperturbato, opalino e neutro come d’una ninfa da cammeo, rivelava un sonno privo di sogni.
Gli sovvenne con orrore il pensiero d’averla già infettata.
In un nonnulla materializzò su quel volto immaculato i mutamenti che l’incedere del morbo avrebbe prodotto: gote ulcerate, fronte pustolosa, occhi sprofondati, labbra livide.
“No, no!”
Cancellò con urgenza quell’immagine dalla memoria e tornò a guardarsi allo specchio.
No. Più del proprio declino gli sarebbe stato insopportabile quello di Eleonora.
Quando di notte la sfiorava, la lambiva, le suggeva ora le dita ora i lobi delle orecchie, moti subitanei che il proprio istinto e l’abbandono lascivo di lei gli dettavano, fino all’istante sublime in cui entrava in lei, ebbene in quei momenti sentiva fluire in sé la linfa calda d’un anelito alla immortalità, o in subordine un’aspettativa di vita superiore alla media riportata nel “Digestive’s Digest”.
Eleonora era l’albero del pane, il motore primo, il centro del suo perpetuo gravitare. Sarebbe impazzito al solo pensiero di lei che scontava il fio delle proprie trascorse promiscuità con stupide zanzare cavalline.
Un tarlo di maggiore consistenza (una termite probabilmente) cominciò perciò a roderlo più a fondo.
Un’analisi del suo sangue: ecco cosa s’imponeva per fugare ogni dubbio!
Ovviamente a sua insaputa, per non insospettirla.
Per fortuna quello era il mestiere di Pepi Sincleux. Per lui quel fluido amaranto non aveva segreti, né gli incuteva ribrezzo.
Un prelievo notturno, silenzioso, indolore, d’una proditoria amorevolezza, per sondare il suo sangue ed allontanare l’atroce sospetto.
E così fece Pepi Sincleux.
Attese paziente che Eleonora nelle mosse spontanee del sonno assumesse una posizione che gli offrisse lo spiraglio per agire.
E quando finalmente lei, dimentica e immersa nell’imo del REM, scoperse l’avambraccio dalle coltri, lui le si accostò tosto, sondò leggero una venuzza a fil di pelle, e cominciò a prelevare una modica quantità.
Purtroppo però aveva sottovalutato la leggerezza del sonno della donna, e le conseguenze della sua reazione scomposta.
Percepito infatti il subitaneo pizzicorìo all’avambraccio, Eleonora si scosse, fece una smorfia schioccando la lingua impastata, e trasse d’istinto l’altra mano dal fascio di lenzuola, per poi ammollare uno schiaffetto alla sorgente del fastidio.
Proprio in quel mentre Pepi Sincleux. avvertì quanto vano fosse stato il suo slancio, e più in generale accusò il vuoto stagno dell’esistere.
L’indomani mattina Eleonora s’avvide di quella zanzara schiacciata che le aveva impiastricciato di sangue le federe.
Non senza stizza buttò un’occhiata malevola allo zampirone che giaceva inetto nei pressi della finestra, e si ripromise di passare al fornelletto o agli ultrasuoni.
Le spoglie di Pepi Sincleux, con le ali sconnesse e le zampe contorte, ruzzolarono sullo scendiletto per lo spostamento d’aria che produsse la donna nel levarsi.
Per la cronaca, studi successivi appurarono che l’encefalite C africana non è causata dalle zanzare cavalline, bensì dai cercopitechi equatoriali che orinano ritualmente sulle noci di cocco quando incrociano per strada le zanzare cavalline.
Per questo motivo su un numero successivo di “Digestive’s Digest” si sarebbe raccomandato il rapporto sessuale protetto con dette noci di cocco.
© Gero Mannella